Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus Seneca, de brevitate vitae I, 3 [«non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto», trad. A. Traina]
lunedì 8 marzo 2010
Euripide, Baccanti 1043-1152: analisi e commento
1043-1062. La lunga rhésis inizia all'insegna della pacatezza e della tranquillità. Due sono infatti i temi fondamentali, che alternandosi dominano l'intero intervento del servo-messaggero: "la pace idilliaca e la folle furia sanguinaria delle Baccanti" (Scazzoso). La scena si svolge sul Citerone, il monte ove si celebrano i riti bacchici, a cui vuole assistere il re Penteo. Questo è il luogo esatto perchè si svolgano tali riti: una valle erbosa, rupi scoscese ed innevate, le ombre lugubri dei pini, elementi sovrastati da un religioso silenzio. I tre pellegrini si muovono secondo l'andamento di una processione, formata dal sacerdote (Dioniso) e dalla vittima condotta al sacrificio (Penteo). Al v. 1051 ha inizio l'ékphrasis tópou, nella quale vengono descritte le occupazioni delle Menadi: c'è chi prepara i tirsi, con cui avevano messo in fuga i contadini, ed invece chi intona canti in onore del dio Bacco. Ma Penteo è meravigliato perché non s'aspettava di vederle in questo clima pacifico (che tra poco si muterà), come quando dormivano. - Penteo, lo sciagurato: l'apparizione di Penteo avviene secondo i tipici tratti del tiranno, ma dopo le magie dello straniero (Dioniso) è sorpreso e triste, e viene preso pure in giro dal dio. Penteo è sottomesso all'ospite-straniero (Dioniso lo convince perfino a vestire panni femminili). In questo condizione ridicola il re suscita nel pubblico pietà e compassione, ed è ormai divenuto un burattino nelle mani di Dioniso. Il dio diventa perfido e vendicativo (ribaltamento dei ruoli: Penteo da carnefice a vittima, Dioniso da vittima a carnefice). Luci ed ombre sul personaggio misterioso si smascherano (da positivo a negativo). Il pubblico non capisce più nulla: chi è buono e chi è cattivo? - le Menadi false: critica ai falsi bacchiggiamenti. Altri intendono "ignobili", perchè nóthos indica "un estremo sussulto di violenza verbale da parte del re" (Guidorizzi). 1063-1074. Penteo, per vedere meglio le Menadi, che crede si siano nascoste, chiede di poter salire su di un albero. Dioniso esaudisce il suo desiderio, ma facendo un rito magico, un miracolo, che il servo riconosce bene. Il dio piega un albero (un pino, pianta sacra a Dioniso), su cui sale Penteo. Ma tutto ciò è fatto in funzione del sacrificio finale: dall'alto può apparire a tutti. L'ascesa di Penteo al pino non è un elemento esornativo, come suggeriva Wilamowitz, ma fa parte di un rito preparatorio al sacrificio: la vittima prima di essere sacrificata veniva legata ad un albero. Inoltre, Pausania (2, 2, 6) racconta che nell'agorà di Corinto erano oggetto di venerazione due idoli intagliati nel legno dell'albero su cui Penteo si era appollaiato. Il grido è un elemento caratteristico del rito bacchico, perché è primitivo e selvaggio, e può toccare la psiche umana nel profondo, riuscendo a risvegliare in un attimo la malvagità delle Baccanti, che si preparano al sacrificio di Penteo. Dioniso da qui in poi non si manifesta più, ma "rimane la sua onnipotenza invisibile operante attraverso il furore delle donne" (Scazzoso). Dioniso si comporta come un uomo, perchè cerca la vendetta (cfr. Stasimo III), inoltre ha più mezzi di Penteo, che è accecato dall'ate, avendo commesso atti di ubris. Penteo inoltre non si accorge che il dio commette azioni non mortali (da qui si coglie l'ironica situazione in cui grava il re: si sta ormai preparando la katastróphe). - come una curva ruota, tracciata dal compasso: alcuni intendono questo passo in altro modo, ritenendo il cerchio tracciato da un tornio, o da un tornio ad archetto. 1075-1085. Dopo questo miracolo lo straniero sparisce e nel silenzio totale, che è la risposta della natura alla divina epifania, si ode solo la voce del dio che chiama a raccolta le menadi. I versi 1084-1085 "descrivono mirabilmente il silenzio della natura nel momento in cui stanno per farvi la loro irruzione le forze del soprannaturale" (Dodds). La stessa scena miracolosa caratterizzata da un sacrale silenzio si ritrova in Sofocle (Edipo a Colono, vv. 1062-1064): "nessun gemito più si sentiva, fu silenzio, e improvvisamente una voce lo chiamò gridando" (trad. R. Cantarella). 1086-1100. Secondo schemi rituali, Penteo è colpito dalla lapidazione (1096-1097), poi da tirsi, che neanche lo toccano. Le figlie di Cadmo (epiteto inadeguato al ruolo che vengono ad avere per uccidere Penteo) cercano di colpirlo, ma vanamente. Penteo diventa miserabile bersaglio, ed assistiamo così ad un mitigamento della sua immagine: sempre più commiserabile e sempre più vittima. La sventura comincia quando viene convinto ad indossare abiti femminili. Da carneficie (egli voleva infatti colpire con la lapidazione l'ospite-Dioniso) a vittima del dio. La furia delle Baccanti si esplica col lancio delle pietre: egli diventa capro espiatorio, pharmakós, per liberare l'intera collettività dalle colpe di un singolo (Penteo), che non aveva voluto accettare la religione dionisiaca nella città e così viene "scacciato" da Tebe. Questo rito lo ritroviamo in festività come le Lithobolia di Trezene (Pausania 2, 32, 2) o le Targhelie ad Atene, dedicate ad Apollo. - la velocità ... minore di quella della colomba: contrasto con il ruolo che avranno a breve (nella vita reale sono tenere donzelle ed in questo caso, ossia nel rito bacchico, sono delle furie invasate dal dio. 1100-1113. La vendetta continua: ora avviene lo sradicamento dell'albero, altro elemento eccezzionale, in quanto le donne sono invasate dalla forza fisica e brutale del dio. Questa descrizione minuta dei singoli particolari, ha una precisa funzione per una narrazione completa. Lo sradicamento dell'albero (1103-1113) faceva probabilmente parte di un rituale minoico: "incisioni di Cnosso raffigurano sacerdotesse danzanti (probabilmente una danza estatica) che fanno l’atto di sradicare un albero. Pausania (10, 32, 6) testimonia inoltre che residui di questo rituale sopravvivevano ancora alla sua epoca: ad Aulai in Magnesia v’era una grotta dove venivano dedicati ad Apollo alberi sacri, che i fedeli sradicavano dai monti" (Guidorizzi). Come fa notare Vitali, in prospettiva junghiana nel mito di Penteo si troverebbero riuniti il significato fallico dell’albero (lo sradicamento sarebbe il simbolo della castrazione) e la sua natura materna (l’albero porta e avvolge Penteo). - Lo sciagurato: Penteo è preso da aporia, perchè non sa cosa fare. - la fiera: la madre non riconosce il figlio, in quanto Menade invasata dal dio. Adesso le Menadi sono invasate dal dio, come prima Penteo era preda dell'ate. Penteo è belva, ma in quanto tale comte potrebbe rivelare i segreti del culto? - comprendeva di essere vicino alla morte: Penteo è ormai lucido, e comprende quale sia la propria sorte, ed "è questa l'estrema vendetta di Dioniso" (Guidorizzi), che non gli concede neanche l'anestesia del delirio. 1114-1128. La definizione di Agave come "sacerdotessa di un rito di sangue" (1114), quindi non più madre nè regina, sancisce la natura rituale della morte di Penteo, in tutto e per tutto simile a un sacrificio. Piomba un alone di sacralità su di un atto così ripugnante: la madre uccide il proprio figlio. Euripide pone l'accento anche sul fatto che questo sacrificio sia pure un delitto, un sacrificio estraneo alle regole della ritualità. Nella descrizione in primo piano del volto di Agave (1112-1124) sono evidenti tutte le caratteristiche di un attacco isterico. Questa "maschera della follia" trova numerosi antecedenti letterari: Senofonte (Simpsio 1, 10), Euripide (Eracle furente vv. 932 ss. e 990 ss.), etc. Si ribalta la situazione iniziale: prima era Penteo ad essere cieco; l'invasamento all'inizio era fonte di saggezza e portatore di bei frutti (ora strumento spregevole); prima era Penteo ad essere tlemon (si noti come il re sia uscito dalla sua condizione di cecità ed ottenebramento). Penteo ora capisce e confessa di aver errato, ma è troppo tardi e questa giunge come "spontanea e immediata confessione. [...] E' il riconoscimento della potenza del dio personalmente sperimentata" (Scazzoso). Inoltre il culto bacchico è una religione irrazionale, che porta a non ragionare più. 1129-1143. Il poeta descrive nei più crudi particolari la scena del sacrificio di Penteo. E' una scena dominata dal sangue, che ha valore purificatorio, espiatorio, rigeneratore, etc. Il razionalista Penteo cerca in tutti i modi di opporsi all'irrazionale (culto bacchico): Penteo rappresenta forse lo stesso Euripide? Anche la ricerca dell'irrazionale condotta dal poeta non ha portato a nulla. La religione è destinata a trionfare: ai de elalazon (canto di vittoria). Questo sacrificio è repellente per il lettore, ma estremamente bello per le Baccanti, perchè Penteo ha sbagliato e deve pagare. Le giustiziere però fanno ribrezzo al pubblico. Perchè Penteo viene punito? Non è maledetto dal dio, ma è tlemon (v. 1102) e dusdaimonos (si riversa una certa commiserazione verso chi era stato finora mal presentato). La scena dello sparagmos si conclude con un particolare macabro e sanguinario: l'esposizione del trofeo della caccia, cioè la testa del figlio, sul tirso che funge da picca. Questo gesto era sentito come barbaro: questo trattamento fu riservato da Serse a Leonida, caduto alla Termopili (Erodoto VII, 238); inoltre lo spartano Pausania si rifiutò di utilizzare questo gesto per il generale persiano Mardonio (Erodoto IX, 79): "Queste azioni si addicono più ai barbari che ai Greci" (trad. A. Izzo d'Accinni). 1144-1152. La rhésis si conclude innestandosi nell'azione del dramma e preannunciando l'ingresso in scena di Agave con in mano il trofeo della caccia. La conclusione moralistica viene pronunciata da un personaggio umile, quale il servo-messaggero. Questa saggezza popolare si fonda sull'esperienza quotidiana diretta e non su princpici astratti (lontana dal mondo aristocratico e particolaristico delle grandi città), inoltre non vi sono altri grandi ktemata che possono sostituire la religione, tanto vale accettarla, anche se non priva di aspetti crudi e sgradevoli. Questo il senso degli ultimi versi: "io credo che la moderazione e il santo rispetto delle cose divine, siano una bellissima cosa per gli uomini; ancor più bella se alla teoria si aggiunge la pratica, cioè se gli uomini uniformano la loro vita vissuta a tali precetti" (Scazzoso). Alla fine viene fatto il nome del responsabile della vittoria grondante sangue: Bacco.
Il quinto episodio (1024-1052) è forse la parte più famosa dell’intera tragedia euripidea. La morte dello sciagurato e sfortunato Penteo viene in primo luogo annunciata, e poi crudelmente raccontata in una lunga rhésis da parte del messaggero-servo che aveva accompagnato il suo signore, assieme allo straniero-dio, che li aveva guidati sul Citerone per vedere i riti bacchici. In primo luogo l’episodio si apre con un dialogo fra il servo ed il coro, in cui emergono le reazioni antitetiche relative alla notizia della morte di Penteo: il primo è addolorato per la perdita del padrone, mentre il coro è felice per la libertà che ha raggiunto con la sua morte. L’intera ascesa al monte di Penteo è rappresentata come “una processione sacra” (Ieranò), racchiusa all’interno di una scena rituale, che prepara lo spettatore al culmine: il sacrificio dell’empio. L’intero percorso del corteo attraverso la valle silenziosa è nel più assoluto silenzio: le Baccanti sono ferme, immobili nel loro agire. All’improvviso, però, il grido del dio le scatena, facendo breccia nel silenzio della natura e in un attimo Penteo comprende (emánthanen, v. 1113) il destino che lo attende. Ormai il re è circondato dalle Baccanti, che si preparano all’ultimo atto: lo sparagmós. Ma nulla si può tentare, perché il suo viaggio attraverso l’ignoto ed il nulla, lo ha portato nelle reti del dio Dioniso (il suo intervento però non segna la soluzione del dramma, quanto invece determina le cause e per di più ne enfatizza gli effetti). Ora tutto comprende, ma la sua comprensione coincide con la propria morte.
L’intero racconto del messaggero-servo è speculare rispetto alla prima rhésis angheliké: “descrive l’arrivo nel quieto ambiente montano, lo spettacolo delle baccanti in riposo, la loro improvvisa furia, l’assalto e lo smembramento della vittima, seguito dai canti di gioia delle donne” (Guidorizzi).
Dopo aver lasciato le case della terra di Tebe,
superammo le correnti dell’Asopo,
e cominciammo a valicare le rupi del Citerone, 1045
Penteo ed io, che seguivo il [mio] signore,
e lo straniero, che ci faceva da guida allo spettacolo.
Per prima cosa sostammo in una valle erbosa,
evitando di far rumore con i passi
e con la voce, per osservare senza essere visti. 1050
C’era una conca circondata da rocce, percorsa da torrenti,
ombreggiate dai pini, dove stavano le Menadi,
dedicandosi con le [loro] mani a dolci fatiche.
Alcune di loro infatti avvolgevano ancora d’edera
il tirso, che aveva perso la [sua] chioma, 1055
altre, come puledre lasciate libere dai giochi variopinti,
contavano a voci alterne un inno in onore di Bacco.
Penteo, lo sciagurato, non vedendo la massa femminile
disse queste cose: «O straniero, da dove ci siamo messi,
non raggiungo con la vista le Menadi false. 1060
Però dalle rocce, o salendo su un pino dall’alto collo,
potrei ben vedere le turpi azioni delle Menadi».
Ormai vedo il prodigio dello straniero:
prendendo la cime di un alto ramo del pino,
lo tirava verso il basso, giù, giù fino alla nera terra, 1065
e si piegava come un arco o come una curva ruota,
tracciata dal compasso che descrive una corsa circolare.
Così lo straniero tirando con le mani il ramo montano
lo piegava in terra, compiendo azioni non mortali.
Dopo aver messo Penteo sui rami dell’abete, 1070
lasciava andare dalle mani l’albero ritto su in alto,
senza tremore, stando attento che non lo disarcionasse;
si stagliava diritto verso l’alto cielo,
tenendo il [mio] signore che stava seduto sul dorso.
Fu visto più di quanto lui vedesse le Menadi. 1075
Infatti non era ancora visibile stando là in alto,
e non era più possibile scorgere lo straniero,
e dal cielo una voce, la voce di Dioniso, come si poteva
[ben] intendere, gridò: «O ragazze,
porto qui colui che di voi e anche di me 1080
e dei miei riti si fa beffe: dunque punitelo!».
E mentre pronunciava queste parole, e tra il cielo
e la terra si elevava un segno di fuoco divino.
L’etere tacque, l’erbosa valle silenziosa
teneva le foglie, e non avresti potuto udire un grido di fiera. 1085
Alle orecchie delle donne quella voce era suonata oscura:
si alzarono in piedi e volsero qua e là gli occhi.
Ma quello ripeté il comando. Quando riconobbero
chiaramente l’ordine di Bacco, le figlie di Cadmo
si lanciarono in rapide corse, avendo la velocità 1090
dei piedi non minore di quella della colomba,
la madre Agave e le sorelle dello stesso seme
e tutte le Baccanti; balzavano attraverso la valle
percorsa da torrenti e di rupi essendo invasate dai soffi del dio.
Quando videro il re che stava sopra il pino, 1095
prima di tutto gettavano delle pietre scagliate con forza
su di lui, dopo essere salite su di una rupe che di fronte troneggiava,
ed egli era colpito da rami di pino.
Altre scagliavano attraverso l’aria i tirsi
contro Penteo, miserabile bersaglio, ma non lo colpirono. 1100
Lo sciagurato stava lì, tenendo un’altezza
superiore all’ardore, preso da impotenza.
Alla fine, spezzando dei rami di quercia, veloci come fulmini,
divelsero le radici con leve non di ferro.
E poiché non raggiungevano le mete dei loro scopi, 1105
Agave disse: «Orsù, stando intorno
afferrate il tronco, o Menadi, per prendere la fiera,
che è salita sopra e non riveli le cerimonie
segrete del dio». E queste mettevano
una miriade di mani intorno al pino e lo sradicavano da terra. 1110
Penteo sedendo in alto cadde dall’alto,
volando a terra, con infiniti lamenti;
infatti comprendeva di essere vicino alla morte.
Per prima la madre, in quanto sacerdotessa, diede inizio
alla strage e lo assalì. Ed egli gettò via dai capelli 1115
il copricapo, affinché riconoscendolo non l’uccidesse,
Agave infelice, e disse toccandole
la guancia: «Sono io, madre, Penteo,
il figlio che hai partorito nella reggia di Echione:
abbi pietà di me, o madre, non uccidere 1120
tuo figlio a causa delle mie colpe!».
Ed essa, schiumando, roteando le pupille stravolte,
non ragionando su ciò che si dovrebbe ragionare,
era posseduta da Bacco ed egli non la convinceva.
Prendendo la mano del braccio sinistro, 1125
premendo sul torace dello sciagurato,
strappò via la spalla e non con la sua forza,
ma il dio le diede forza alle mani.
Ino invece si dava da fare dall’altra parte,
strappando le carni ed Autonoe e tutta la schiera 1130
delle Baccanti la raggiungeva: v’era dappertutto un gridio
e, lamentandosi egli per quanto poteva respirare,
le altre cantavano vittoria. Una portava un braccio,
l’altra un piede cogli stessi calzari. I fianchi
venivano denudati a pezzi e ognuna colle mani 1135
sporche di sangue palleggiava la carne di Penteo.
Qua e là giace il suo corpo, parte sotto ruvide rupi,
parte tra la macchia fitta del bosco,
la ricerca non era facile: la testa sventurata,
che capitò per caso tra le mani della madre, 1140
la quale la conficcò nell’estremità del tirso, come se fosse
quella di un forte leone, [la madre] la porta per il Citerone,
dopo aver lasciato le sorelle tra le schiere delle Menadi.
S’avvia superba per la caccia sventurata
verso queste mura, invocando Bacco, 1145
compagno di caccia, alleato della cattura,
trionfatore, alla quale dà lacrime di vittoria.
Io mi tolgo di mezzo da questa sciagura
prima che Agave arrivi a casa.
L’esser saggio e il rispettare la religione 1150
è la cosa più bella; io credo che ciò sia anche il possesso
Mi è stato giustamente fatto notare che è inutile pubblicare commenti e traduzioni, seppur correttamente validi, inerenti a temi ormai fintroppo analizzati, quali Orazio, Virgilio od altri autori "classici". Quindi ho deciso di dedicare spazio ad autori "minori" o comunque trascurati dalle antologie scolastiche. Ecco che quindi mi approccio prima ad Apicio, autore del De re coquinaria, poi a Varrone Reatino con particolare attenzione verso il De re rustica e le Saturae Menippeae, ed infine (almeno per ora) a Columella, autore dell'ennesimo De re rustica. Questa la traccia per il momento, che sarà sempre suscettibile di cambiamento. Ogni autore sarà trattato in breve nei suoi caratteri generali e saranno poi presentati dei testi in antologia con commento e note.
La struttura. Questo famosissimo componimento oraziano è fondato sulla ripresa di un’antica tradizione letteraria, quale quella del mimo, in voga in età ellenistica. Questo genere era basato sulla narrazione e descrizione di fatti quotidiani: vere e proprie scene della vita cittadina (in prevalenza) o del mondo rurale e contadino. Tutto era giocato su uno stile veloce e brioso, dai facili colpi di scena (si ricordi in questa satira l’intervento del “salvatore”, che però non si dimostrerà tale, Aristio Fusco).
La satira si può dividere facilmente in poche sequenze narrative, che prendono avvio dalla situazione iniziale (vv. 1-4) in cui Orazio incontra per le vie di Roma, nei pressi del Foro, un seccatore. Tutto il componimento è abbastanza chiaro e lineare, ed alterna parti narrative e parti dialogiche (lo scambio veloce di battute fra i due personaggi). La prima parte (vv. 5-43) vede un Orazio che tenta inesorabilmente di staccarsi da questo avventore, il poeta infatti non tollera la compagnia di quest’individuo. Egli cerca in un “comico continuo tira e molla” (Conte-Pianezzola [2004], p. 229) di sganciarsi da costui: si mostra intento ad altro (vv. 8-10), si inventa la scusa di dover andar a trovare un amico malato (vv. 16-18), né infine l’impegno improrogabile in tribunale del seccatore (vv. 36-40), lo distolgono dall’opprimere Orazio con incalzanti domande: il poeta è ormai rassegnato (vv. 20-21, 28-30, 42-43).
Il verso 43 è emblematico e rivela le vere intenzione dell’avventore: conoscere l’intimo amico di Orazio, Mecenate, per entrare nel suo entourage. Nonostante Orazio spieghi chiaramente quali siano gli ideali e la morale del circolo intellettuale di Mecenate, il seccatore continua a farsi i suoi progetti mentali per trovar il modo di entrare in questo circolo, commettendo degli errori grossolani.
Alla fine interviene inaspettatamente, come ricordato sopra, un terzo personaggio: l’amico Aristio Fusco (vv. 60-74). Orazio tenta di segnalare con ogni mezzo, fino a quasi mostrare esplicitamente la propria richiesta d’aiuto all’amico, perché lo porti in salvo; ma l’amico più che aiutarlo, gode nel vederlo in difficoltà: Orazio diventa così oggetto di scherno e beffe.
Il poeta rassegnato, come non mai nella satira, non si aspetta d’esser salvato da un dio, ossia da un deus ex machina, che lo trascina in salvo: costui è l’adversarius nella causa giuridica, che trascina a forza il seccatore in tribunale.
Lessico e stile. Da un punto di vista stilistico questo componimento satirico rivela lo stile proprio del sermo, tanto caro ai poeti satirici. L’esametro perde la sua magniloquenza epica, per assumere un ruolo subalterno: diventa il metro del dialogo, dello scambio di battute rozze, leggere ed ironiche. Si comprende quindi che l’intera satira è giocata sullo scambio di battute brevi e incalzanti, intervallate da didascalie ed intermezzi narrativi, impedendo così che il verso si concluda sintatticamente (cosa impensabile per la poesia epica o comunque di più alta poetica). Lo stile è molto semplice e colloquiale, come richiesto dalla materia trattata: una sintassi molto scarna (ad esempio i vv. 14-16 misere cupis abire: iamdudum video; sed nil agis; usque tenebo; persequar, o i vv. 71-72 at mi: sum paulo infirmior, unus multo rum. Ignosces; alias loquar) e che non rifugge da costrutti inusuali (nil habeo quod agam, v. 19; ego canto quod incideat, v. 25; nihil officit quia, vv. 50-51; accendis quare, v. 53), frequenti sono le ellissi, poiché sintomo di uno stile vicino al parlato (suaviter, ut nunc est, v. 5; haud mihi quisquam, v. 27; Maecenas quomodo tecum?, v. 43; paucorum hominum et mentis bene sanae, v. 44). Nelle parti narrative prevale uno stile parodico, nettamente in contrasto con lo stile epico. Ecco solo alcuni esempi: l’elenco di cola asindetici e l’uso di infiniti descrittivi ai vv. 9-10 (ire … consistere … dicere), che servono al poeta a descrivere i tentativi per liberarsi dal seccatore, espediente riutilizzato al v. 66 (dissimulare … urere). Ai vv. 20-21 trova spazio l’aneddoto popolare legato alla figura dell’asino, in cui l’alternarsi di diminutivi (aurica, asellus) carica l’atmosfera di ironia ed affetto. La conclusione della satira ha un sapore molto parodico dello stile epico: sic me servavit Apollo; mentre la rapida successione di cola asindetici in chiasmo sottolinea l’efficacia e la rapidità della scena (rapit in ius: clamor utrimque, undique concursus).
L’esempio più significativo dello stile oraziano è rappresentato dalla profezia della vecchia fattucchiera Sabella (vv. 31-34) in cui la mescolanza di epico e faceto si fondono in un equilibrio perfetto. Si passa dagli epici ensis, dirus, hosticus (più arcaico del prosastico hostilis), aufero (nel senso di “far morire”), transitando attraverso la sovrabbondanza di congiunzioni (neque … nec … nec … aut … nec) e la tmesi quando … cumque (v. 33), e si arriva ad un’improvvisa caduta di stile: si parla di dolor laterum, tosse e podagra, fino al popolare garrulus.
Modelli e tradizione. Secondo l’interpretazione maggiormente accreditata fra gli studiosi questa satira prende ispirazione da un componimento di Lucilio, in cui raccontava l’incontro fortuito fra Scipione Emiliano, aristocratico, uomo di grande cultura e protettore dello stesso Lucilio, ed uno scurra (un “buffone”), con il quale il potente uomo gareggiava in motteggi e frasi lascive. Sicuramente l’avvio della satira oraziana prende ispirazione da Lucilio (v. 1142 Marx = 258 Warmington ibat forte domum, sequimur multi atque frequentes (1), «capitò per caso che [Scipione] si recasse a casa, seguito da una gran folla»). La satira luciliana ci è giunta mutila, però dai suoi frammenti riusciamo a comprendere come Lucilio volesse sottolineare la maggior vis comica dell’illustre personaggio, sostenuta da un’adeguata preparazione culturale, che metteva in ridicolo il povero scurra. Ma in Orazio l’attenzione verso il seccatore cambia: non è più ingenuo e facilmente addomesticabile, ma diventa intelligente, furbo e forte. Orazio è quindi destinato a soccombere, però viene fortuitamente soccorso dall’adversarius del seccatore. Il poeta risulta comunque vincitore sul piano morale.
La satira si conclude con una scena di fuga generale (vv. 77-78): da ogni parte rumore, da ogni parte fugge la gente: “così il mimo si chiude con quella folla urlante che scompare verso il fondo della scena” (La Penna [1978], p. 193). Ma questo perché? Tutti sono atterriti e spaventati dal sopraggiungere di una divinità che salva il poeta Orazio, e chi poteva essere se non il dio della poesia Apollo (sic me servavit Apollo). Questa scena richiama un illustre predecessore, Omero, dove nella sua Iliade il divino Apollo porta in salvo l’eroe Ettore dalle grinfie d’Achille (20, 443 «ma Apollo glielo sottrasse»). Quest’illustre modello sarà ripreso anche da Lucilio nella satira sopra menzionata (vv. 231-232 Marx = 267-268 Warmington) (2). Così Orazio aveva sott’occhio per il suo componimento due illustri predecessori, “con un’allusione letteraria a doppio referente, a Omero e anche a Lucilio, segnalando così la caratterizzazione eroicomica e scherzosa dell’episodio, e anche il suo debito verso l’illustre precedente satirico” (Conte-Pianezzola[2004], p. 230).
Note:
1. Commenta il Marx: “Qui Scipionem multi atque frequentes secuntur domum euntem, in quibus erat Lucilius ipse, ii sunt comites eius habendi et amici, inprimis Latini et socii apud quos merito Scipio ille audierit P. Cornelius noster” (C. Lucilii Carminum reliquiae, recensuit enarravit F. Marx, vol. II, in Aedibus Teubneri, Lipsiae 1905, p. 361).
2. “L’uso di stilemi omerici praticato da Lucilio rappresenta un altro tipo di prestito dal greco, spesso arguto: nella satira in cui Scipione viene perseguitato da un seccatore, qualcuno, forse Scipione stesso, formula l’augurio: […] «Che collimi tutto: s’avveri il ‘lo trasse fuori Apollo!’» […] Il carattere così allusivo degli scritti di Lucilio ci avvicina al mondo letterario di Cicerone” (A. S. Gratwick, Le satire di Ennio e Lucilio, in La letteratura della Cambridge University, tr. it. L. Simonini, vol. II, I Meridiani, Milano 1991,p. 280).
Questa è forse una delle satire più famose dell’intera raccolta oraziana ed è ormai nota come “satira del seccatore”, perché descrive uno sfortunato incontro con un fantomatico seccatore, che cerca di ingraziarsi il poeta Orazio per arrivare a Mecenate. Sullo sfondo si snoda il Foro, dove i due personaggi passeggiano, continuando a fermarsi e a riprendere freneticamente il passo.
Orazio perde le staffe con questa razza umana alquanto insopportabile, ma il personaggio viene tracciato secondo una caricatura tipica: intrigante, maligno, arrampicatore sociale, aspirante portaborse. Egli è pronto ad intrufolarsi nel mondo quasi cavalleresco di Mecenate, turbando quell’equilibrio e quella moralità che vi si trova.
La satira è stata definita da Antonio La Penna come “un mimo vivacissimo e mobilissimo”, in cui “nessuna mossa, nessuna parola” è “superflua”, sì che “l’arte oraziana non ha mai avuto tanta rapidità e tanta misura insieme” (La Penna [1978], p. 187). Infatti piano narrativo e piano dialogico mostrano la perfetta arte di Orazio.
Questa dev’essere stata una delle ultime satire composte del libro I, probabilmente fra il 37 e il 33 a.C., poiché il contenuto mostra una consolidata amicizia e conoscenza di Mecenate.
La traduzione è basata sul testo stabilito da D. Bo: Q. Horati Flacci Opera, vol. II (Sermonum libri II, Epistularum libri II, De arte poetica liber), recensuit D. B., Paravia, Torino 1959
Camminavo lungo la via Sacra (1), come è mia abitudine, scervellandomi su non quali sciocchezze (2), tutto preso da quelle: nel mentre un tale, che conosco solo di nome, mi si faceva incontro e, afferratami la mano, comincia: «Ma come stai, carissimo?». «Benissimo, almeno fino ad ora» (3), dico, «e ti auguro tutto ciò che desideri». E siccome continuava a seguirmi, lo incalzo: «Desideri forse qualcosa?». Ma lui mi risponde: «Tu mi dovresti conoscere, sono infatti un uomo di lettere». Io, a questo punto: «Tanto più mi sarai caro per questo». Cercando disperatamente di allontanarmi, ora prendevo a camminare più in fretta, ora mi fermavo, oppure mi mettevo a dire qualcosa nell’orecchio al mio schiavetto, mentre il sudore mi colava fino ai talloni (4). «Felice te, o Bolano, per la tua testa calda» (5), dicevo fra me e me, mentre quello starnazzava tutto quello che gli passava per la testa, celebrava la bellezza delle vie, della città. Visto che non gli rispondevo, «Desideri disperatamente andartene», dice, «me ne sono accorto; ma non ce la farai: ti terrò dietro passo dopo passo. Da qui dove ti proponi di andare?» (6). «Non c’è bisogno che tu mi accompagni: ho intenzione di far visita ad una persona che tu non conosci. Giace malata dall’altra parte del Tevere, vicino ai giardini di Cesare» (7). «Non ho nulla da fare e non sono per nulla pigro: ti seguirò per tutto il tempo». Abbasso le orecchie, come un asinello arrabbiato, dopo che gli hanno caricato un peso eccessivo sulla groppa (8). E di nuovo comincia: «Se mi conosco bene, non avrai più caro di me né Visco né Vario tra i tuoi amici (9): chi infatti è in grado di comporre più versi di me, o più in fretta di me? Chi danzare con più grazia? E canto da far invidia anche ad Ermogene!» (10). Questo era il momento di interromperlo: «Hai una madre, dei parenti, qualcuno che ha bisogno che tu ti mantenga in salute?» (11). «Nessuno: li ho seppelliti tutti!». Sono proprio fortunati. Ormai non rimango che io da seppellire. Finiscimi: e infatti incombe su di me una funesta sorte, che mi profetizzò, quando era fanciullo, una vecchia Sabina, agitando la sua urna magica (12): “Costui non lo uccideranno né terribili veleni, né la spada di un nemico, né il dolore dei fianchi, né la tosse, né la lenta podagra (13): prima o poi sarà un chiacchierone a consumarlo; pertanto, se ha giudizio, eviti i loquaci, non appena avrà raggiunto l’età matura” (14). Eravamo arrivati fino al tempio di Vesta, quando era trascorso ormai un quarto della giornata (15), e capitava che il chiacchierone dovesse comparire in giudizio, e se non si fosse presentato, avrebbe perso la causa (16). «Se mi vuoi fare un piacere», dice, «assistimi un istante (17)». «Che mi prenda un colpo, se ho la forza di stare in piedi o se m’intendo di diritto civile; e poi ho fretta di recarmi dove sai». «Sono in dubbio sul da farsi», dice, «se abbandonare te o la causa». «Me, ti prego». E quello: «Non lo farò», e comincia a precedermi. Io lo seguo, perché è difficile discutere con chi ha sempre ragione. «E come va tra te e Mecenate?», riprende. «Un uomo da pochi amici e con la testa ben piantata sul collo» (18). «Nessuno è infatti stato più destro di lui ad approfittare della buona sorte. Avresti un solerte collaboratore, che potrebbe farti da spalla (19), se tu volessi far conoscere quest’uomo a Mecenate. Mi venga un accidenti, se non è vero che li avresti bell’e fatti fuori tutti». «Non viviamo lì a quel modo che tu credi. Nessuna dimora è più pura di questa né più estranea a questi mali. Non mi dà noia», ti dico, «se quest’uomo è più ricco o più acculturato: ciascuno ha il suo posto, la sua posizione» (20). «Mi racconti una cosa che si stenta a credere». «Eppure è proprio così». «Mi fai bramare ancor più d’esser annoverato fra i suoi». «Basta solo che tu lo voglia: visto il tuo valore, lo conquisterai facilmente, ed è uno che non è difficile da conquistare, perciò rende difficile il primo assalto» (21). «Non mancherò a me stesso: corromperò i suoi servi con doni; se oggi rimarrò chiuso fuori, non desisterò dal mio intento; attenderò il momento opportuno, lo attenderò ai crocicchi, gli farò da scorta. La vita non ha concesso nulla senza un grande sforzo agli uomini» (22). Mentre discorre di queste cose, ecco venirci incontro Aristio Fusco, un mio caro amico e che ben conosceva quel tale (23). Ci fermiamo. «Da dove vieni?» e «Dove vai?» chiede e risponde. Comincio a tirarlo per la veste e a prendere con la mano quella braccia maledettamente insensibili, facendogli cenno col capo, storcendo gli occhi, perché mi tirasse in salvo (24). Per far dello spirito a sproposito (25), rideva e faceva finta di nulla, mentre a me la bile rodeva il fegato: «Se non sbaglio, dicevi di voler parlare in segreto con me di non so quale cosa». «Lo rammento molto bene, ma te lo riferirò in momento più propizio: oggi è il novilunio, è sabato. Vuoi forse scoreggiare in faccia agli Ebrei circoncisi?» (26). «Ma io non ho di queste superstizioni». «Ma io sì! Sono meno forte di te, uno come tanti. Mi perdonerai, ma ne parliamo un’altra volta». Che sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia sotto tiro. Ma il caso vuole che ci venga incontro il suo avversario, e ad alta voce lo apostrofa: «Infame, dove credi di scappare?», e a me: «testimonieresti a mio favore?» (27). Io, per tutta risposta, gli porgo l’orecchio (28). Lo trascina in tribunale. Grida dappertutto, grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi (29).
Note:
1. Il forte (“per caso”), omesso nella traduzione, dovrebbe servire ad indicare una circostanza occasionale, anche se tale interpretazione viene contestata dall’espressione successiva (sicut meus est mos). La via Sacra era una delle strade principali di Roma, che attraversava la depressione fra il Palatino ed il Campidoglio, giungendo fino al Foro, ove si trovava Orazio che giungeva dall’Esquilino.
2. Nel testo latino si ritrova il termine nuga, che veniva ad indicare un genere poetico ‘leggero’: “del resto, nell’ambito del sermo, l’elaborazione letteraria non era nettamente separabile dalla riflessione morale. […] Se comunque Orazio ha preferito tenersi sul vago, è forse inopportuno voler essere noi troppo precisi” (Labate [1996], p. 305).
3. Da qui si evince subito come l’atteggiamento di Orazio nei confronti di questo fantomatico seccatore sia un misto fra disagio, rassegnazione, ma anche superiorità ed aggressività.
4. Qui vale la pena soffermarsi sul testo originale: misere discedere quaerens | ire modo ocius, interdum consistere, in aurem | dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos | manaret talos: “una scena vivacissima, di brillante rapidità e concentrazione espressiva: l’effetto è ottenuto con la successione di brevi cola asindetici, animati dagli infiniti descrittivi […], nonché dalla variatio nella correlazione” (Labate [1996], p. 306).
5. La figura di Bolano non ci è altrimenti nota: possiamo comprendere come costui fosse famoso per la sua iracondia e suscettibilità. Questa è una delle molte frecciate, caratteristiche della mordacità satirica d’Orazio, presenti in questa satira.
6. Mi discosto dal testo stabilito dal Bo (persequar hinc quo nunc iter est tibi), interpungendo tra persequar e hinc (persequar. Hinc quo nunc iter est tibi?). Senza interpunzione persequar perde il suo rilievo “monumentale e il ritmo rapido di botta e risposta s’inceppa” (Labate [1996], 306).
7. Orazio si tiene volutamente sul vago, poiché non serve a nulla precisare il nome di questa fantomatica persona ammalata, che si trova nei pressi degli horti Caesaris. Questi furono lasciati in eredità alla plebe romana da Giulio Cesare e si trovavano alle pendici del Gianicolo, un miglio oltre il Tevere.
8. L’asino è il simbolo di un’antica saggezza popolare, derivata dalla favola esopica: l’animale è infatti “maestro di rassegnazione forzata” (Labate [1996], p. 307). L’asino non osa ribellarsi, quando ha sulla groppa una pesante carico, perché sa bene che è inutile, e quindi si rassegna ed abbassa le orecchie. Alcuni commentatori hanno voluto – a torto – vedere in questo verso un riferimento ad una favola esopica.
9. Visco e Vario fanno parte con Orazio del circolo di Mecenate. Il primo è uno dei due figli del cavaliere Vibio Visco. Il secondo, forse il più famoso fra i due, noto come Vario Rufo, poeta epico e tragico (scrisse infatti una tragedia perduta dal titolo Thyestes), fu incaricato da Augusto di pubblicare, dopo la morte di Virgilio, l’Eneide.
10. In questi versi il seccatore cerca di ingraziarsi Orazio affermando d’esser un abile danzatore e cantante alla pari di quel tale Ermogene (famoso proprio per il suo canto melodioso). Ma l’incauto seccatore non sa che proprio Orazio condanna queste due arti ritenendoli vezzi degni di bellimbusti effeminati (cfr. Serm. II, 1, 24).
11. L’espressione è volutamente ambigua, ma trova appiglio nell’enumerazione delle presunti doti dell’avversario. Ritengo che Orazio voglia sottolineare il fatto che una simile sovrabbondanza di attività dovrebbe portare lui presto alla morte. Egli dunque dovrebbe badare maggiormente alla propria salute, se ha dei parenti o familiari a cui badare. Utile il commento del Palmer: “why does Horatius ask this? Perhaps he hints that if he had got an answer in the affirmative he would have gone on to say that the illness of his sick friend was contagious. […] Others […] that the varied accomplishments which the latter has just enumerated are too much for anyone to attempt with safety” (Palmer [1885], p. 222).
12. La Sabella nominata da Orazio doveva essere una fattucchiera interpellata dai parenti, perché vaticinasse il futuro del piccolo. I Sabelli erano una popolazione dell’Appennino centromeridionale, vicino a Venosa, città natale del poeta. L’urna divinatoria era un’urna “da cui venivano estratte laminette di piombo, ciascuna delle quali portava iscritta una predizione, solitamente, ambigua” (Labate [1981], p. 179).
13. La podagra è una malattia dolorosa, comune nell’antichità, definita tarda (“lenta”) perché associata all’età avanzata in cui sopraggiungeva e alla mobilità limitata che dava questa malattia.
14. Questa profezia è un esempio della forza espressiva di Orazio: da un lato l’elevatezza dello stile, dall’altra l’incongruenza fra forma espressiva e situazione (la nobiltà di spada e veleni, per passare alle malattie, contrapposti al banale garrulus).
15. Il tempio di Vesta si trovava nel Foro. I due vi giungono passando per l’arco di Fabio (l’odierna chiesa di Cosma e Damiano), non lontano dal tribunale del pretore, frequentato da uomini d’affari e di legge. L’ora probabilmente varia fra le nove e le dieci del mattino, a seconda della stagione.
16. “Già Porfirione [il commentatore di Orazio, vissuto nel II sec. d.C., N.d.A.] poneva il problema dell’esattezza giuridica di questa affermazione. Chi mancava al processo per cui aveva presentato cauzione perdeva […] la cauzione stessa, non il processo. […] Solo in una secondo fase, se l’assenza era recidiva, il pretore giudicava in contumacia a favore dell’avversario” (Labate [1996], p. 309).
17. Il seccatore chiede ad Orazio di assumere il ruolo di advocatus, ossia di un assistente ‘morale’ durante il processo, non di difensore.
18. Ad un certo punto il seccatore nomina Mecenate, amico e protettore di Orazio, ma perché? L’unico motivo dell’esasperante inseguimento è il cercare un aggancio per approdare nell’ambiente di Mecenate, visto come la massima espressione del successo mondano-letterario. Ma il poeta cerca tuttavia di tagliar corto, non lasciando spazio di controbattuta al seccatore.
19. Si evince da questi versi come l’avversario di Orazio faccia ricorso ad un lessico ricavato dall’ambiente teatrale: adiutor e ferre secundas (scil. partes) fanno riferimento alla spalla, al deuteragonista, colui che aiuta il protagonista a tendere insidie e scherzi.
20. Sono celebri questi versi, perché il poeta elenca quali sono i valori ed i principi che animano il circolo di Mecenate (cfr. Labate [1996], p. 311).
21. “Orazio finalmente comincia a imparare. Anziché cercare di contrastarlo frontalmente, un tipo come il seccatore va assecondato, rifacendosi magari con l’ironia, con il piacere di vederlo goffo e maldestro. […] Conoscere Mecenate diventa una specie di battaglia per la conquista di una piazzaforte (expugnabis): a chi saprà condurla con ostinato valore non potrà non arridere la vittoria. In realtà, la pretesa virtus del seccatore è soltanto invadenza asfissiante e inopportuna” (Labate [1996], pp. 311-312). Tutti i tentativi fatti risulteranno inutili, poiché Mecenate è un uomo scontroso all’apparenza, ma sottosotto nobile e gentile. L’animo scontroso è sintomo di una certa insicurezza e quindi il seccatore non potrà che incorrere solamente in questo suo lato del carattere.
22. Il modo di approcciarsi a Mecenate è maldestro e importuno, poiché egli è tanto riservato che un atteggiamento così lo spaventerebbe e basta.
23. Un incontro inaspettato getta sull’ormai rassegnato Orazio un’ombra di salvezza: sta infatti giungendo l’amico Aristio Fusco, che forse potrà dare una mano al poeta. Egli, amico di Orazio e di Mecenate, grammatico e autore di commedia, è dedicatario di un’ode (I, 22) e di un’epistola (I, 10).
24. Orazio cerca di trattenere l’amico con tutti ciò è in suo potere: gli afferra la veste, lo prende per il braccio che è lentus, perché indica l’assoluta mancanza di reattività dell’amico, storce gli occhi, gli fa dei cenni con il capo. Orazio diventa oggetto comico, poiché Fusco non intende aiutare l’amico che si trova in una situazione scomoda.
25. Male salsus: Fusco vuole fare il burlone, ma Orazio-personaggio non riesce ad apprezzare questa sua ironia.
26. Orazio tenta infine di coinvolgere l’amico in un astuto scambio di battute, ma ancora Fusco non intende aiutarlo e preferisce deriderlo. In questo clima, Fusco prorompe con una battuta poco chiara e di difficile interpretazione. “Aristio sembra confondere due diverse festività, il ‘sabato’ settimanale degli Ebrei e il ‘trentesimo giorno’ del ciclo lunare, corrispondente alla luna nuova, sacro a molti popoli antichi, fra cui i Romani (per questo alcuni editori scrivono tricesima, sabbata, separando le due espressioni). Alcuni pensano che il ‘trentesimo sabato’ fosse una designazione della Pasqua ebraica; ma potrebbe trattarsi solo di una festività inventata, un’espressione ridicola di sapore iperbolico” (Conte-Pianezzola [2004], p. 228; cfr. Palmer [1885], p. 227). Il termine curtis allude alla pratica della circoncisione.
27. Ex abrupto si ritorna alla questione della causa in tribunale. L’adversarius giunge trascinando in tribunale il seccatore, ma poiché quest’utilizzo della forza sia valido serve un testimone, Orazio: “si poteva trascinare a viva forza (manus iniectio) in tribunale la parte avversa che non avesse ottemperato alla promessa […] di presentarsi al processo: bisognava però che ci fosse un testimone a confermare la necessità delle maniere forti. È appunto questa la prestazione che viene richiesta ad Orazio” (Labate [1996], p. 314).
28. Secondo un gesto rituale, viene toccato il lobo dell’orecchio al testimone, ritenuto sede della memoria.
29. Così come nei poemi epici, Orazio, al pari d’un eroe, ha il suo dio che interviene a salvarlo: Apollo, patrono dei poeti.
Bibliografia:
Palmer [1885]: The Satires of Horace, edited with notes by A. Palmer, London 1885
La Penna [1978]: A. La Penna, Orazio, in I classici della cultura latina. Antologia latina per i licei classici, coordinata e diretta da A. L. P., vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1978
Labate [1981]: Orazio, Satire, a cura di M. Labate, BUR, Milano 1981
Labate [1996]: M. Labate, Orazio, in Il libro degli autori latini, coordinato da G. B. Conte, Le Monnier, Firenze 1996
Conte-Pianezzola [2004]: G. B. Conte, E. Pianezzola, Corso integrato di letteratura latina, vol. III, Le Monnier, Firenze 2004