La satira del seccatore (Hor. Serm. I, 9)
Questa è forse una delle satire più famose dell’intera raccolta oraziana ed è ormai nota come “satira del seccatore”, perché descrive uno sfortunato incontro con un fantomatico seccatore, che cerca di ingraziarsi il poeta Orazio per arrivare a Mecenate. Sullo sfondo si snoda il Foro, dove i due personaggi passeggiano, continuando a fermarsi e a riprendere freneticamente il passo.
Orazio perde le staffe con questa razza umana alquanto insopportabile, ma il personaggio viene tracciato secondo una caricatura tipica: intrigante, maligno, arrampicatore sociale, aspirante portaborse. Egli è pronto ad intrufolarsi nel mondo quasi cavalleresco di Mecenate, turbando quell’equilibrio e quella moralità che vi si trova.
La satira è stata definita da Antonio La Penna come “un mimo vivacissimo e mobilissimo”, in cui “nessuna mossa, nessuna parola” è “superflua”, sì che “l’arte oraziana non ha mai avuto tanta rapidità e tanta misura insieme” (La Penna [1978], p. 187). Infatti piano narrativo e piano dialogico mostrano la perfetta arte di Orazio.
Questa dev’essere stata una delle ultime satire composte del libro I, probabilmente fra il 37 e il 33 a.C., poiché il contenuto mostra una consolidata amicizia e conoscenza di Mecenate.
La traduzione è basata sul testo stabilito da D. Bo: Q. Horati Flacci Opera, vol. II (Sermonum libri II, Epistularum libri II, De arte poetica liber), recensuit D. B., Paravia, Torino 1959
Camminavo lungo la via Sacra (1), come è mia abitudine, scervellandomi su non quali sciocchezze (2), tutto preso da quelle: nel mentre un tale, che conosco solo di nome, mi si faceva incontro e, afferratami la mano, comincia: «Ma come stai, carissimo?». «Benissimo, almeno fino ad ora» (3), dico, «e ti auguro tutto ciò che desideri». E siccome continuava a seguirmi, lo incalzo: «Desideri forse qualcosa?». Ma lui mi risponde: «Tu mi dovresti conoscere, sono infatti un uomo di lettere». Io, a questo punto: «Tanto più mi sarai caro per questo». Cercando disperatamente di allontanarmi, ora prendevo a camminare più in fretta, ora mi fermavo, oppure mi mettevo a dire qualcosa nell’orecchio al mio schiavetto, mentre il sudore mi colava fino ai talloni (4). «Felice te, o Bolano, per la tua testa calda» (5), dicevo fra me e me, mentre quello starnazzava tutto quello che gli passava per la testa, celebrava la bellezza delle vie, della città. Visto che non gli rispondevo, «Desideri disperatamente andartene», dice, «me ne sono accorto; ma non ce la farai: ti terrò dietro passo dopo passo. Da qui dove ti proponi di andare?» (6). «Non c’è bisogno che tu mi accompagni: ho intenzione di far visita ad una persona che tu non conosci. Giace malata dall’altra parte del Tevere, vicino ai giardini di Cesare» (7). «Non ho nulla da fare e non sono per nulla pigro: ti seguirò per tutto il tempo». Abbasso le orecchie, come un asinello arrabbiato, dopo che gli hanno caricato un peso eccessivo sulla groppa (8). E di nuovo comincia: «Se mi conosco bene, non avrai più caro di me né Visco né Vario tra i tuoi amici (9): chi infatti è in grado di comporre più versi di me, o più in fretta di me? Chi danzare con più grazia? E canto da far invidia anche ad Ermogene!» (10). Questo era il momento di interromperlo: «Hai una madre, dei parenti, qualcuno che ha bisogno che tu ti mantenga in salute?» (11). «Nessuno: li ho seppelliti tutti!». Sono proprio fortunati. Ormai non rimango che io da seppellire. Finiscimi: e infatti incombe su di me una funesta sorte, che mi profetizzò, quando era fanciullo, una vecchia Sabina, agitando la sua urna magica (12): “Costui non lo uccideranno né terribili veleni, né la spada di un nemico, né il dolore dei fianchi, né la tosse, né la lenta podagra (13): prima o poi sarà un chiacchierone a consumarlo; pertanto, se ha giudizio, eviti i loquaci, non appena avrà raggiunto l’età matura” (14). Eravamo arrivati fino al tempio di Vesta, quando era trascorso ormai un quarto della giornata (15), e capitava che il chiacchierone dovesse comparire in giudizio, e se non si fosse presentato, avrebbe perso la causa (16). «Se mi vuoi fare un piacere», dice, «assistimi un istante (17)». «Che mi prenda un colpo, se ho la forza di stare in piedi o se m’intendo di diritto civile; e poi ho fretta di recarmi dove sai». «Sono in dubbio sul da farsi», dice, «se abbandonare te o la causa». «Me, ti prego». E quello: «Non lo farò», e comincia a precedermi. Io lo seguo, perché è difficile discutere con chi ha sempre ragione. «E come va tra te e Mecenate?», riprende. «Un uomo da pochi amici e con la testa ben piantata sul collo» (18). «Nessuno è infatti stato più destro di lui ad approfittare della buona sorte. Avresti un solerte collaboratore, che potrebbe farti da spalla (19), se tu volessi far conoscere quest’uomo a Mecenate. Mi venga un accidenti, se non è vero che li avresti bell’e fatti fuori tutti». «Non viviamo lì a quel modo che tu credi. Nessuna dimora è più pura di questa né più estranea a questi mali. Non mi dà noia», ti dico, «se quest’uomo è più ricco o più acculturato: ciascuno ha il suo posto, la sua posizione» (20). «Mi racconti una cosa che si stenta a credere». «Eppure è proprio così». «Mi fai bramare ancor più d’esser annoverato fra i suoi». «Basta solo che tu lo voglia: visto il tuo valore, lo conquisterai facilmente, ed è uno che non è difficile da conquistare, perciò rende difficile il primo assalto» (21). «Non mancherò a me stesso: corromperò i suoi servi con doni; se oggi rimarrò chiuso fuori, non desisterò dal mio intento; attenderò il momento opportuno, lo attenderò ai crocicchi, gli farò da scorta. La vita non ha concesso nulla senza un grande sforzo agli uomini» (22). Mentre discorre di queste cose, ecco venirci incontro Aristio Fusco, un mio caro amico e che ben conosceva quel tale (23). Ci fermiamo. «Da dove vieni?» e «Dove vai?» chiede e risponde. Comincio a tirarlo per la veste e a prendere con la mano quella braccia maledettamente insensibili, facendogli cenno col capo, storcendo gli occhi, perché mi tirasse in salvo (24). Per far dello spirito a sproposito (25), rideva e faceva finta di nulla, mentre a me la bile rodeva il fegato: «Se non sbaglio, dicevi di voler parlare in segreto con me di non so quale cosa». «Lo rammento molto bene, ma te lo riferirò in momento più propizio: oggi è il novilunio, è sabato. Vuoi forse scoreggiare in faccia agli Ebrei circoncisi?» (26). «Ma io non ho di queste superstizioni». «Ma io sì! Sono meno forte di te, uno come tanti. Mi perdonerai, ma ne parliamo un’altra volta». Che sole tenebroso era mai sorto su di me! Se la squaglia, il briccone, e mi lascia sotto tiro. Ma il caso vuole che ci venga incontro il suo avversario, e ad alta voce lo apostrofa: «Infame, dove credi di scappare?», e a me: «testimonieresti a mio favore?» (27). Io, per tutta risposta, gli porgo l’orecchio (28). Lo trascina in tribunale. Grida dappertutto, grande accorrere di gente. E fu così che Apollo decise di salvarmi (29).
Note:
1. Il forte (“per caso”), omesso nella traduzione, dovrebbe servire ad indicare una circostanza occasionale, anche se tale interpretazione viene contestata dall’espressione successiva (sicut meus est mos). La via Sacra era una delle strade principali di Roma, che attraversava la depressione fra il Palatino ed il Campidoglio, giungendo fino al Foro, ove si trovava Orazio che giungeva dall’Esquilino.
2. Nel testo latino si ritrova il termine nuga, che veniva ad indicare un genere poetico ‘leggero’: “del resto, nell’ambito del sermo, l’elaborazione letteraria non era nettamente separabile dalla riflessione morale. […] Se comunque Orazio ha preferito tenersi sul vago, è forse inopportuno voler essere noi troppo precisi” (Labate [1996], p. 305).
3. Da qui si evince subito come l’atteggiamento di Orazio nei confronti di questo fantomatico seccatore sia un misto fra disagio, rassegnazione, ma anche superiorità ed aggressività.
4. Qui vale la pena soffermarsi sul testo originale: misere discedere quaerens | ire modo ocius, interdum consistere, in aurem | dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos | manaret talos: “una scena vivacissima, di brillante rapidità e concentrazione espressiva: l’effetto è ottenuto con la successione di brevi cola asindetici, animati dagli infiniti descrittivi […], nonché dalla variatio nella correlazione” (Labate [1996], p. 306).
5. La figura di Bolano non ci è altrimenti nota: possiamo comprendere come costui fosse famoso per la sua iracondia e suscettibilità. Questa è una delle molte frecciate, caratteristiche della mordacità satirica d’Orazio, presenti in questa satira.
6. Mi discosto dal testo stabilito dal Bo (persequar hinc quo nunc iter est tibi), interpungendo tra persequar e hinc (persequar. Hinc quo nunc iter est tibi?). Senza interpunzione persequar perde il suo rilievo “monumentale e il ritmo rapido di botta e risposta s’inceppa” (Labate [1996], 306).
7. Orazio si tiene volutamente sul vago, poiché non serve a nulla precisare il nome di questa fantomatica persona ammalata, che si trova nei pressi degli horti Caesaris. Questi furono lasciati in eredità alla plebe romana da Giulio Cesare e si trovavano alle pendici del Gianicolo, un miglio oltre il Tevere.
8. L’asino è il simbolo di un’antica saggezza popolare, derivata dalla favola esopica: l’animale è infatti “maestro di rassegnazione forzata” (Labate [1996], p. 307). L’asino non osa ribellarsi, quando ha sulla groppa una pesante carico, perché sa bene che è inutile, e quindi si rassegna ed abbassa le orecchie. Alcuni commentatori hanno voluto – a torto – vedere in questo verso un riferimento ad una favola esopica.
9. Visco e Vario fanno parte con Orazio del circolo di Mecenate. Il primo è uno dei due figli del cavaliere Vibio Visco. Il secondo, forse il più famoso fra i due, noto come Vario Rufo, poeta epico e tragico (scrisse infatti una tragedia perduta dal titolo Thyestes), fu incaricato da Augusto di pubblicare, dopo la morte di Virgilio, l’Eneide.
10. In questi versi il seccatore cerca di ingraziarsi Orazio affermando d’esser un abile danzatore e cantante alla pari di quel tale Ermogene (famoso proprio per il suo canto melodioso). Ma l’incauto seccatore non sa che proprio Orazio condanna queste due arti ritenendoli vezzi degni di bellimbusti effeminati (cfr. Serm. II, 1, 24).
11. L’espressione è volutamente ambigua, ma trova appiglio nell’enumerazione delle presunti doti dell’avversario. Ritengo che Orazio voglia sottolineare il fatto che una simile sovrabbondanza di attività dovrebbe portare lui presto alla morte. Egli dunque dovrebbe badare maggiormente alla propria salute, se ha dei parenti o familiari a cui badare. Utile il commento del Palmer: “why does Horatius ask this? Perhaps he hints that if he had got an answer in the affirmative he would have gone on to say that the illness of his sick friend was contagious. […] Others […] that the varied accomplishments which the latter has just enumerated are too much for anyone to attempt with safety” (Palmer [1885], p. 222).
12. La Sabella nominata da Orazio doveva essere una fattucchiera interpellata dai parenti, perché vaticinasse il futuro del piccolo. I Sabelli erano una popolazione dell’Appennino centromeridionale, vicino a Venosa, città natale del poeta. L’urna divinatoria era un’urna “da cui venivano estratte laminette di piombo, ciascuna delle quali portava iscritta una predizione, solitamente, ambigua” (Labate [1981], p. 179).
13. La podagra è una malattia dolorosa, comune nell’antichità, definita tarda (“lenta”) perché associata all’età avanzata in cui sopraggiungeva e alla mobilità limitata che dava questa malattia.
14. Questa profezia è un esempio della forza espressiva di Orazio: da un lato l’elevatezza dello stile, dall’altra l’incongruenza fra forma espressiva e situazione (la nobiltà di spada e veleni, per passare alle malattie, contrapposti al banale garrulus).
15. Il tempio di Vesta si trovava nel Foro. I due vi giungono passando per l’arco di Fabio (l’odierna chiesa di Cosma e Damiano), non lontano dal tribunale del pretore, frequentato da uomini d’affari e di legge. L’ora probabilmente varia fra le nove e le dieci del mattino, a seconda della stagione.
16. “Già Porfirione [il commentatore di Orazio, vissuto nel II sec. d.C., N.d.A.] poneva il problema dell’esattezza giuridica di questa affermazione. Chi mancava al processo per cui aveva presentato cauzione perdeva […] la cauzione stessa, non il processo. […] Solo in una secondo fase, se l’assenza era recidiva, il pretore giudicava in contumacia a favore dell’avversario” (Labate [1996], p. 309).
17. Il seccatore chiede ad Orazio di assumere il ruolo di advocatus, ossia di un assistente ‘morale’ durante il processo, non di difensore.
18. Ad un certo punto il seccatore nomina Mecenate, amico e protettore di Orazio, ma perché? L’unico motivo dell’esasperante inseguimento è il cercare un aggancio per approdare nell’ambiente di Mecenate, visto come la massima espressione del successo mondano-letterario. Ma il poeta cerca tuttavia di tagliar corto, non lasciando spazio di controbattuta al seccatore.
19. Si evince da questi versi come l’avversario di Orazio faccia ricorso ad un lessico ricavato dall’ambiente teatrale: adiutor e ferre secundas (scil. partes) fanno riferimento alla spalla, al deuteragonista, colui che aiuta il protagonista a tendere insidie e scherzi.
20. Sono celebri questi versi, perché il poeta elenca quali sono i valori ed i principi che animano il circolo di Mecenate (cfr. Labate [1996], p. 311).
21. “Orazio finalmente comincia a imparare. Anziché cercare di contrastarlo frontalmente, un tipo come il seccatore va assecondato, rifacendosi magari con l’ironia, con il piacere di vederlo goffo e maldestro. […] Conoscere Mecenate diventa una specie di battaglia per la conquista di una piazzaforte (expugnabis): a chi saprà condurla con ostinato valore non potrà non arridere la vittoria. In realtà, la pretesa virtus del seccatore è soltanto invadenza asfissiante e inopportuna” (Labate [1996], pp. 311-312). Tutti i tentativi fatti risulteranno inutili, poiché Mecenate è un uomo scontroso all’apparenza, ma sottosotto nobile e gentile. L’animo scontroso è sintomo di una certa insicurezza e quindi il seccatore non potrà che incorrere solamente in questo suo lato del carattere.
22. Il modo di approcciarsi a Mecenate è maldestro e importuno, poiché egli è tanto riservato che un atteggiamento così lo spaventerebbe e basta.
23. Un incontro inaspettato getta sull’ormai rassegnato Orazio un’ombra di salvezza: sta infatti giungendo l’amico Aristio Fusco, che forse potrà dare una mano al poeta. Egli, amico di Orazio e di Mecenate, grammatico e autore di commedia, è dedicatario di un’ode (I, 22) e di un’epistola (I, 10).
24. Orazio cerca di trattenere l’amico con tutti ciò è in suo potere: gli afferra la veste, lo prende per il braccio che è lentus, perché indica l’assoluta mancanza di reattività dell’amico, storce gli occhi, gli fa dei cenni con il capo. Orazio diventa oggetto comico, poiché Fusco non intende aiutare l’amico che si trova in una situazione scomoda.
25. Male salsus: Fusco vuole fare il burlone, ma Orazio-personaggio non riesce ad apprezzare questa sua ironia.
26. Orazio tenta infine di coinvolgere l’amico in un astuto scambio di battute, ma ancora Fusco non intende aiutarlo e preferisce deriderlo. In questo clima, Fusco prorompe con una battuta poco chiara e di difficile interpretazione. “Aristio sembra confondere due diverse festività, il ‘sabato’ settimanale degli Ebrei e il ‘trentesimo giorno’ del ciclo lunare, corrispondente alla luna nuova, sacro a molti popoli antichi, fra cui i Romani (per questo alcuni editori scrivono tricesima, sabbata, separando le due espressioni). Alcuni pensano che il ‘trentesimo sabato’ fosse una designazione della Pasqua ebraica; ma potrebbe trattarsi solo di una festività inventata, un’espressione ridicola di sapore iperbolico” (Conte-Pianezzola [2004], p. 228; cfr. Palmer [1885], p. 227). Il termine curtis allude alla pratica della circoncisione.
27. Ex abrupto si ritorna alla questione della causa in tribunale. L’adversarius giunge trascinando in tribunale il seccatore, ma poiché quest’utilizzo della forza sia valido serve un testimone, Orazio: “si poteva trascinare a viva forza (manus iniectio) in tribunale la parte avversa che non avesse ottemperato alla promessa […] di presentarsi al processo: bisognava però che ci fosse un testimone a confermare la necessità delle maniere forti. È appunto questa la prestazione che viene richiesta ad Orazio” (Labate [1996], p. 314).
28. Secondo un gesto rituale, viene toccato il lobo dell’orecchio al testimone, ritenuto sede della memoria.
29. Così come nei poemi epici, Orazio, al pari d’un eroe, ha il suo dio che interviene a salvarlo: Apollo, patrono dei poeti.
Bibliografia:
Palmer [1885]: The Satires of Horace, edited with notes by A. Palmer, London 1885
La Penna [1978]: A. La Penna, Orazio, in I classici della cultura latina. Antologia latina per i licei classici, coordinata e diretta da A. L. P., vol. II, La Nuova Italia, Firenze 1978
Labate [1981]: Orazio, Satire, a cura di M. Labate, BUR, Milano 1981
Labate [1996]: M. Labate, Orazio, in Il libro degli autori latini, coordinato da G. B. Conte, Le Monnier, Firenze 1996
Conte-Pianezzola [2004]: G. B. Conte, E. Pianezzola, Corso integrato di letteratura latina, vol. III, Le Monnier, Firenze 2004
si chiama satira del seccatore perchè secca alquanto leggerla!
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