Il messaggero racconta l’atroce morte di Penteo
(Eur. Bac. 1043-1152)
Il quinto episodio (1024-1052) è forse la parte più famosa dell’intera tragedia euripidea. La morte dello sciagurato e sfortunato Penteo viene in primo luogo annunciata, e poi crudelmente raccontata in una lunga rhésis da parte del messaggero-servo che aveva accompagnato il suo signore, assieme allo straniero-dio, che li aveva guidati sul Citerone per vedere i riti bacchici. In primo luogo l’episodio si apre con un dialogo fra il servo ed il coro, in cui emergono le reazioni antitetiche relative alla notizia della morte di Penteo: il primo è addolorato per la perdita del padrone, mentre il coro è felice per la libertà che ha raggiunto con la sua morte. L’intera ascesa al monte di Penteo è rappresentata come “una processione sacra” (Ieranò), racchiusa all’interno di una scena rituale, che prepara lo spettatore al culmine: il sacrificio dell’empio. L’intero percorso del corteo attraverso la valle silenziosa è nel più assoluto silenzio: le Baccanti sono ferme, immobili nel loro agire. All’improvviso, però, il grido del dio le scatena, facendo breccia nel silenzio della natura e in un attimo Penteo comprende (emánthanen, v. 1113) il destino che lo attende. Ormai il re è circondato dalle Baccanti, che si preparano all’ultimo atto: lo sparagmós. Ma nulla si può tentare, perché il suo viaggio attraverso l’ignoto ed il nulla, lo ha portato nelle reti del dio Dioniso (il suo intervento però non segna la soluzione del dramma, quanto invece determina le cause e per di più ne enfatizza gli effetti). Ora tutto comprende, ma la sua comprensione coincide con la propria morte.
L’intero racconto del messaggero-servo è speculare rispetto alla prima rhésis angheliké: “descrive l’arrivo nel quieto ambiente montano, lo spettacolo delle baccanti in riposo, la loro improvvisa furia, l’assalto e lo smembramento della vittima, seguito dai canti di gioia delle donne” (Guidorizzi).
Dopo aver lasciato le case della terra di Tebe,
superammo le correnti dell’Asopo,
e cominciammo a valicare le rupi del Citerone, 1045
Penteo ed io, che seguivo il [mio] signore,
e lo straniero, che ci faceva da guida allo spettacolo.
Per prima cosa sostammo in una valle erbosa,
evitando di far rumore con i passi
e con la voce, per osservare senza essere visti. 1050
C’era una conca circondata da rocce, percorsa da torrenti,
ombreggiate dai pini, dove stavano le Menadi,
dedicandosi con le [loro] mani a dolci fatiche.
Alcune di loro infatti avvolgevano ancora d’edera
il tirso, che aveva perso la [sua] chioma, 1055
altre, come puledre lasciate libere dai giochi variopinti,
contavano a voci alterne un inno in onore di Bacco.
Penteo, lo sciagurato, non vedendo la massa femminile
disse queste cose: «O straniero, da dove ci siamo messi,
non raggiungo con la vista le Menadi false. 1060
Però dalle rocce, o salendo su un pino dall’alto collo,
potrei ben vedere le turpi azioni delle Menadi».
Ormai vedo il prodigio dello straniero:
prendendo la cime di un alto ramo del pino,
lo tirava verso il basso, giù, giù fino alla nera terra, 1065
e si piegava come un arco o come una curva ruota,
tracciata dal compasso che descrive una corsa circolare.
Così lo straniero tirando con le mani il ramo montano
lo piegava in terra, compiendo azioni non mortali.
Dopo aver messo Penteo sui rami dell’abete, 1070
lasciava andare dalle mani l’albero ritto su in alto,
senza tremore, stando attento che non lo disarcionasse;
si stagliava diritto verso l’alto cielo,
tenendo il [mio] signore che stava seduto sul dorso.
Fu visto più di quanto lui vedesse le Menadi. 1075
Infatti non era ancora visibile stando là in alto,
e non era più possibile scorgere lo straniero,
e dal cielo una voce, la voce di Dioniso, come si poteva
[ben] intendere, gridò: «O ragazze,
porto qui colui che di voi e anche di me 1080
e dei miei riti si fa beffe: dunque punitelo!».
E mentre pronunciava queste parole, e tra il cielo
e la terra si elevava un segno di fuoco divino.
L’etere tacque, l’erbosa valle silenziosa
teneva le foglie, e non avresti potuto udire un grido di fiera. 1085
Alle orecchie delle donne quella voce era suonata oscura:
si alzarono in piedi e volsero qua e là gli occhi.
Ma quello ripeté il comando. Quando riconobbero
chiaramente l’ordine di Bacco, le figlie di Cadmo
si lanciarono in rapide corse, avendo la velocità 1090
dei piedi non minore di quella della colomba,
la madre Agave e le sorelle dello stesso seme
e tutte le Baccanti; balzavano attraverso la valle
percorsa da torrenti e di rupi essendo invasate dai soffi del dio.
Quando videro il re che stava sopra il pino, 1095
prima di tutto gettavano delle pietre scagliate con forza
su di lui, dopo essere salite su di una rupe che di fronte troneggiava,
ed egli era colpito da rami di pino.
Altre scagliavano attraverso l’aria i tirsi
contro Penteo, miserabile bersaglio, ma non lo colpirono. 1100
Lo sciagurato stava lì, tenendo un’altezza
superiore all’ardore, preso da impotenza.
Alla fine, spezzando dei rami di quercia, veloci come fulmini,
divelsero le radici con leve non di ferro.
E poiché non raggiungevano le mete dei loro scopi, 1105
Agave disse: «Orsù, stando intorno
afferrate il tronco, o Menadi, per prendere la fiera,
che è salita sopra e non riveli le cerimonie
segrete del dio». E queste mettevano
una miriade di mani intorno al pino e lo sradicavano da terra. 1110
Penteo sedendo in alto cadde dall’alto,
volando a terra, con infiniti lamenti;
infatti comprendeva di essere vicino alla morte.
Per prima la madre, in quanto sacerdotessa, diede inizio
alla strage e lo assalì. Ed egli gettò via dai capelli 1115
il copricapo, affinché riconoscendolo non l’uccidesse,
Agave infelice, e disse toccandole
la guancia: «Sono io, madre, Penteo,
il figlio che hai partorito nella reggia di Echione:
abbi pietà di me, o madre, non uccidere 1120
tuo figlio a causa delle mie colpe!».
Ed essa, schiumando, roteando le pupille stravolte,
non ragionando su ciò che si dovrebbe ragionare,
era posseduta da Bacco ed egli non la convinceva.
Prendendo la mano del braccio sinistro, 1125
premendo sul torace dello sciagurato,
strappò via la spalla e non con la sua forza,
ma il dio le diede forza alle mani.
Ino invece si dava da fare dall’altra parte,
strappando le carni ed Autonoe e tutta la schiera 1130
delle Baccanti la raggiungeva: v’era dappertutto un gridio
e, lamentandosi egli per quanto poteva respirare,
le altre cantavano vittoria. Una portava un braccio,
l’altra un piede cogli stessi calzari. I fianchi
venivano denudati a pezzi e ognuna colle mani 1135
sporche di sangue palleggiava la carne di Penteo.
Qua e là giace il suo corpo, parte sotto ruvide rupi,
parte tra la macchia fitta del bosco,
la ricerca non era facile: la testa sventurata,
che capitò per caso tra le mani della madre, 1140
la quale la conficcò nell’estremità del tirso, come se fosse
quella di un forte leone, [la madre] la porta per il Citerone,
dopo aver lasciato le sorelle tra le schiere delle Menadi.
S’avvia superba per la caccia sventurata
verso queste mura, invocando Bacco, 1145
compagno di caccia, alleato della cattura,
trionfatore, alla quale dà lacrime di vittoria.
Io mi tolgo di mezzo da questa sciagura
prima che Agave arrivi a casa.
L’esser saggio e il rispettare la religione 1150
è la cosa più bella; io credo che ciò sia anche il possesso
più saggio per i mortali che se ne sanno servire.
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