Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus
Seneca, de brevitate vitae I, 3
[«non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto», trad. A. Traina]

venerdì 5 marzo 2010

Horatius, Serm. I, 9: analisi e commento

La satira del seccatore: analisi e commento

La struttura. Questo famosissimo componimento oraziano è fondato sulla ripresa di un’antica tradizione letteraria, quale quella del mimo, in voga in età ellenistica. Questo genere era basato sulla narrazione e descrizione di fatti quotidiani: vere e proprie scene della vita cittadina (in prevalenza) o del mondo rurale e contadino. Tutto era giocato su uno stile veloce e brioso, dai facili colpi di scena (si ricordi in questa satira l’intervento del “salvatore”, che però non si dimostrerà tale, Aristio Fusco).

La satira si può dividere facilmente in poche sequenze narrative, che prendono avvio dalla situazione iniziale (vv. 1-4) in cui Orazio incontra per le vie di Roma, nei pressi del Foro, un seccatore. Tutto il componimento è abbastanza chiaro e lineare, ed alterna parti narrative e parti dialogiche (lo scambio veloce di battute fra i due personaggi). La prima parte (vv. 5-43) vede un Orazio che tenta inesorabilmente di staccarsi da questo avventore, il poeta infatti non tollera la compagnia di quest’individuo. Egli cerca in un “comico continuo tira e molla” (Conte-Pianezzola [2004], p. 229) di sganciarsi da costui: si mostra intento ad altro (vv. 8-10), si inventa la scusa di dover andar a trovare un amico malato (vv. 16-18), né infine l’impegno improrogabile in tribunale del seccatore (vv. 36-40), lo distolgono dall’opprimere Orazio con incalzanti domande: il poeta è ormai rassegnato (vv. 20-21, 28-30, 42-43).

Il verso 43 è emblematico e rivela le vere intenzione dell’avventore: conoscere l’intimo amico di Orazio, Mecenate, per entrare nel suo entourage. Nonostante Orazio spieghi chiaramente quali siano gli ideali e la morale del circolo intellettuale di Mecenate, il seccatore continua a farsi i suoi progetti mentali per trovar il modo di entrare in questo circolo, commettendo degli errori grossolani.

Alla fine interviene inaspettatamente, come ricordato sopra, un terzo personaggio: l’amico Aristio Fusco (vv. 60-74). Orazio tenta di segnalare con ogni mezzo, fino a quasi mostrare esplicitamente la propria richiesta d’aiuto all’amico, perché lo porti in salvo; ma l’amico più che aiutarlo, gode nel vederlo in difficoltà: Orazio diventa così oggetto di scherno e beffe.

Il poeta rassegnato, come non mai nella satira, non si aspetta d’esser salvato da un dio, ossia da un deus ex machina, che lo trascina in salvo: costui è l’adversarius nella causa giuridica, che trascina a forza il seccatore in tribunale.

Lessico e stile. Da un punto di vista stilistico questo componimento satirico rivela lo stile proprio del sermo, tanto caro ai poeti satirici. L’esametro perde la sua magniloquenza epica, per assumere un ruolo subalterno: diventa il metro del dialogo, dello scambio di battute rozze, leggere ed ironiche. Si comprende quindi che l’intera satira è giocata sullo scambio di battute brevi e incalzanti, intervallate da didascalie ed intermezzi narrativi, impedendo così che il verso si concluda sintatticamente (cosa impensabile per la poesia epica o comunque di più alta poetica). Lo stile è molto semplice e colloquiale, come richiesto dalla materia trattata: una sintassi molto scarna (ad esempio i vv. 14-16 misere cupis abire: iamdudum video; sed nil agis; usque tenebo; persequar, o i vv. 71-72 at mi: sum paulo infirmior, unus multo rum. Ignosces; alias loquar) e che non rifugge da costrutti inusuali (nil habeo quod agam, v. 19; ego canto quod incideat, v. 25; nihil officit quia, vv. 50-51; accendis quare, v. 53), frequenti sono le ellissi, poiché sintomo di uno stile vicino al parlato (suaviter, ut nunc est, v. 5; haud mihi quisquam, v. 27; Maecenas quomodo tecum?, v. 43; paucorum hominum et mentis bene sanae, v. 44). Nelle parti narrative prevale uno stile parodico, nettamente in contrasto con lo stile epico. Ecco solo alcuni esempi: l’elenco di cola asindetici e l’uso di infiniti descrittivi ai vv. 9-10 (ire … consistere … dicere), che servono al poeta a descrivere i tentativi per liberarsi dal seccatore, espediente riutilizzato al v. 66 (dissimulare … urere). Ai vv. 20-21 trova spazio l’aneddoto popolare legato alla figura dell’asino, in cui l’alternarsi di diminutivi (aurica, asellus) carica l’atmosfera di ironia ed affetto. La conclusione della satira ha un sapore molto parodico dello stile epico: sic me servavit Apollo; mentre la rapida successione di cola asindetici in chiasmo sottolinea l’efficacia e la rapidità della scena (rapit in ius: clamor utrimque, undique concursus).

L’esempio più significativo dello stile oraziano è rappresentato dalla profezia della vecchia fattucchiera Sabella (vv. 31-34) in cui la mescolanza di epico e faceto si fondono in un equilibrio perfetto. Si passa dagli epici ensis, dirus, hosticus (più arcaico del prosastico hostilis), aufero (nel senso di “far morire”), transitando attraverso la sovrabbondanza di congiunzioni (neque … nec … nec … aut … nec) e la tmesi quando … cumque (v. 33), e si arriva ad un’improvvisa caduta di stile: si parla di dolor laterum, tosse e podagra, fino al popolare garrulus.

Modelli e tradizione. Secondo l’interpretazione maggiormente accreditata fra gli studiosi questa satira prende ispirazione da un componimento di Lucilio, in cui raccontava l’incontro fortuito fra Scipione Emiliano, aristocratico, uomo di grande cultura e protettore dello stesso Lucilio, ed uno scurra (un “buffone”), con il quale il potente uomo gareggiava in motteggi e frasi lascive. Sicuramente l’avvio della satira oraziana prende ispirazione da Lucilio (v. 1142 Marx = 258 Warmington ibat forte domum, sequimur multi atque frequentes (1), «capitò per caso che [Scipione] si recasse a casa, seguito da una gran folla»). La satira luciliana ci è giunta mutila, però dai suoi frammenti riusciamo a comprendere come Lucilio volesse sottolineare la maggior vis comica dell’illustre personaggio, sostenuta da un’adeguata preparazione culturale, che metteva in ridicolo il povero scurra. Ma in Orazio l’attenzione verso il seccatore cambia: non è più ingenuo e facilmente addomesticabile, ma diventa intelligente, furbo e forte. Orazio è quindi destinato a soccombere, però viene fortuitamente soccorso dall’adversarius del seccatore. Il poeta risulta comunque vincitore sul piano morale.

La satira si conclude con una scena di fuga generale (vv. 77-78): da ogni parte rumore, da ogni parte fugge la gente: “così il mimo si chiude con quella folla urlante che scompare verso il fondo della scena” (La Penna [1978], p. 193). Ma questo perché? Tutti sono atterriti e spaventati dal sopraggiungere di una divinità che salva il poeta Orazio, e chi poteva essere se non il dio della poesia Apollo (sic me servavit Apollo). Questa scena richiama un illustre predecessore, Omero, dove nella sua Iliade il divino Apollo porta in salvo l’eroe Ettore dalle grinfie d’Achille (20, 443 «ma Apollo glielo sottrasse»). Quest’illustre modello sarà ripreso anche da Lucilio nella satira sopra menzionata (vv. 231-232 Marx = 267-268 Warmington) (2). Così Orazio aveva sott’occhio per il suo componimento due illustri predecessori, “con un’allusione letteraria a doppio referente, a Omero e anche a Lucilio, segnalando così la caratterizzazione eroicomica e scherzosa dell’episodio, e anche il suo debito verso l’illustre precedente satirico” (Conte-Pianezzola [2004], p. 230).


Note:

1. Commenta il Marx: “Qui Scipionem multi atque frequentes secuntur domum euntem, in quibus erat Lucilius ipse, ii sunt comites eius habendi et amici, inprimis Latini et socii apud quos merito Scipio ille audierit P. Cornelius noster” (C. Lucilii Carminum reliquiae, recensuit enarravit F. Marx, vol. II, in Aedibus Teubneri, Lipsiae 1905, p. 361).

2. “L’uso di stilemi omerici praticato da Lucilio rappresenta un altro tipo di prestito dal greco, spesso arguto: nella satira in cui Scipione viene perseguitato da un seccatore, qualcuno, forse Scipione stesso, formula l’augurio: […] «Che collimi tutto: s’avveri il ‘lo trasse fuori Apollo!’» […] Il carattere così allusivo degli scritti di Lucilio ci avvicina al mondo letterario di Cicerone” (A. S. Gratwick, Le satire di Ennio e Lucilio, in La letteratura della Cambridge University, tr. it. L. Simonini, vol. II, I Meridiani, Milano 1991, p. 280).

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